Per comunicare la meteorologia evitiamo di fare così: “Milano, pomeriggio del …: arrivata una bomba d’acqua. In un’ora è caduta la pioggia di sei mesi.”
Titoli del genere abbondano in televisione e sulla stampa. Letteralmente, hanno grande impatto.
Ma sono una rappresentazione corretta della realtà fisica?
Le parole hanno un peso, un valore che spesso va al di là delle definizioni fredde dei vocabolari. Le parole evocano concetti e sensazioni, a volte tutti e due insieme.
Possono aiutare a capire, ma anche confondere: insomma, vanno scelte bene.
La locuzione “bomba d’acqua”, secondo me, non fa eccezione: mi induce ad immaginare l’atto di un qualcuno lontano ed invisibile che osserva, preme un bottone, e – bum!
Certo, precipitazioni molto intense, come se ne vedono di frequente negli ultimi tempi, causano dei danni.
Raccontarle alla stregua di “bombe” ci suggerisce che questi danni sono inevitabili, che l’unica cosa da fare (si fa per dire) è non trovarsi nel punto dell’esplosione.
Magari, mettere uno scolapasta in testa non appena il cielo comincia ad incupirsi.
Le “bombe” (di qualunque tipo), in un certo senso, liberano chi le riceve da ogni assunzione di consapevolezza, o responsabilità.
Ma un momento, che danni sono quelli dovuti alle precipitazioni intense?
Negli ambienti urbani allagamenti. Fuori dalle città, a volte, vere e proprie alluvioni. Fenomeni che accadono allorché la rete di drenaggio delle acque non ha capacità sufficiente per smaltire le acque meteoriche.
Ma le reti di drenaggio, e qui parlo delle città, sono le fognature delle “acque bianche”, progettate decenni fa e, una volta posate in opera, più spesso che no manutenute invece che interamente ricostruite ed ampliate.
Del resto, chi mai oserebbe ampliare tutta la rete fognaria di una grande città? Con l’inevitabile corollario di costi ingenti e disagi? Meglio, concedetemi un pensiero cattivo, dare la colpa ai chiusini intasati ed a chi li lascia intasare, al destino cinico e baro. Alle bombe d’acqua.
E se, invece, adoperassimo la parola “nubifragio”? Non è che, con la sua freddezza un po’ clinica ci aiuterebbe a fare collegamenti con la realtà tecnica?
E poi: cosa vuol dire “l’acqua attesa in un anno”? O in sei mesi?
La precipitazione è un classico esempio di fenomeno in cui il caso gioca un ruolo importantissimo.
E per questo non è che negli anni cada sempre la stessa pioggia: dipende. Dall’anno, e dal punto in cui compiamo la misura.
Per esempio, il pluviometro di Milano via Juvara (rete ARPA Lombardia) ha registrato:
- 772 mm nel 2020.
- 668 mm nel 2021.
- 336 mm nel 2022 (!).
- 751 mm nel 2023.
- 1099 mm nel 2024 (che non è ancora finito: dati sino al 20. 10. 2024).
Nello stesso periodo, il pluviometro di Piazza Zavattari ha detto:
- 1040 mm nel 2020.
- 760 mm nel 2021.
- 450 mm nel 2022.
- 850 mm nel 2023.
- 1454 mm nel 2024 (sino al 21. 10. 2024).
Una vaga rassomiglianza si vede, ma anche le differenze! Il 2020 è stato un anno piovoso, come dice Zavattari, o mezzo secco, come suggerisce Juvara?
Magari, anche tutte e due le cose.
Forse perché le condizioni di misura non sono le stesse.
Forse, anche, perché a Zavattari piove di più.
Chi può dirlo: servirebbe un’analisi accurata.
E proprio qui sta il punto: a volte, il linguaggio giornalistico semplifica troppo: ci da l’illusione di capire, ma ci fa comprendere una cosa sbagliata.
Ma si sa: con le bombe, di solito, non si ragiona.
Come possiamo fare, allora, in concreto?
Intanto: in caso di precipitazioni intense, usiamo una terminologia semplice senza cadere nella trappola di cercare l’effettaccio a tutti i costi. Nel vocabolario italiano la parola che ci serve esiste già? Usiamola.
Facciamo bene la nostra ricerca. Vediamo se quello che sembra a noi un evento estremo lo è per davvero, e invece magari si è già verificato più volte in passato.
Di fronte alla complessità, piuttosto che negarla o esprimerla in termini vaghi e non verificabili (“in tre ore è caduta l’acqua di un mese”). E occhio alla penna! (O alla Lettera 22.) Se esprimiamo una affermazione non verificabile, qualche lettore smaliziato potrebbe domandarsi (e magari chiederci) come abbiamo fatto noi a verificarla: non è una complicata questione di deontologia professionale, ma di credibilità professionale.
E infine: gli esperti ed esperte ci sono. Interpelliamoli, prima di scrivere qualcosa di cui potremmo pentirci.