Patrizia Favaron
Il problema
Facciamo finta di voler costruire un nuovo impianto.
Non è che potremo farlo così, a capocchia: dovremo prima progettarlo (supponiamo di averlo già fatto), e poi, una volta che sia uscito dal tecnigrafo, dovremo comunicare alle autorità competenti la nostra intenzione, completa di tutti i dove-quando-come del caso.
Magari (questo possiamo saperlo già in anticipo, oppure saranno le autorità a chiedercelo) dovremo produrre tutta la documentazione di accompagnamento, tra cui lo “Studio di impatto ambientale” (in realtà non si chiama così: ha diversi nomi, stabiliti caso per caso dalla normativa – ma, facciamo finta che sia).
In questo Studio deve comparire anche un capitolo che riguarda la nostra amica: l’atmosfera.
Ora: uno Studio di impatto ambientale serve per dimostrare che l’impianto soddisfa a tutti i requisiti di legge relativi all’ambiente ed alla salute, e in particolare che “non inquina troppo”. Che, detto in legalese, l’impatto delle emissioni previste sull’ambiente non viola le prescrizioni normative: alcuni inquinanti sono appunto “normati”, e la loro concentrazione al suolo deve rispettare dei limiti ben definiti.
Se il nostro impianto dovesse rilasciare in aria uno o più di quegli inquinanti lì, allora bisognerà mostrare che le ricadute al suolo del nuovo impianto, sommate alle concentrazioni che già ci sono, non superano i limiti di legge.
Quindi, riassumendo:
- Il nuovo impianto rilascerà una o più schifezze in atmosfera (magari da una ciminiera).
- Appena uscite dal camino queste emissioni verranno catturate dal vento, e “faranno qualcosa”.
- Una parte di loro ricadrà al suolo.
- E una volta ricaduta al suolo, tenderà ad intossicare ogni forma di vita che ha la sfortuna di trovarsi lì.
- Questo effetto spiacevolissimo è, almeno, tollerabile? A norma di legge?
Per rispondere a quest’ultima domanda occorre prevedere, in un qualche modo, dove finiranno le sostanze rilasciate in atmosfera, e quando.
A tal fine si adoperano dei “codici di calcolo” (non li chiamo così per caso: sono programmi per calcolatore piuttosto grandi e un po’ polverosi nell’aspetto, che non ho il coraggio di chiamare “App”) fatti apposta, conosciuti dagli esperti come modelli di dispersione.
In questo articolo prenderemo un primo contatto con loro, e vedremo sino a che punto la (micro-)meteorologia c’entra.
In altri articoli che verranno, vedremo alcuni di questi modelli un po’ più in dettaglio, anche se sempre a livello “divulgativo” 😊. (Che non vuol dire banale: tu che leggi hai la tua intelligenza, e quindi, anche quando le cose dovessero sembrarti intricate, vedrai che ci arrivi – decisamente, non serve una Laurea in Fisica.)
Ma prima di tutto, vediamo che cos’è un “modello”.
I modelli: rappresentazioni semplificate e utili della realtà
Così, tanto per chiarirci da subito, e sfrondare il campo da possibili malintesi (ne ho sentiti un po’, nella mia vita…).
Un “modello” è una rappresentazione della realtà. Un manufatto, insomma. O se preferisci, un cervellifatto.
Un modello è, per esempio, un film documentario: potrà essere bello o brutto, informativo o no, eccitante o mortalmente noioso. Ma indubbiamente è una rappresentazione della realtà.
Giusta? Sbagliata? Esaustiva?
Dipende, naturalmente. Ma l’importante non è la lista di tutti questi aggettivi: se restiamo alle definizioni, a contare è il fatto che il modello (il documentario) non è la realtà, ma una sua rappresentazione.
Se in un documentario vedo un grappolo d’uva matura, mi sarà piuttosto difficile afferrarne un acino e mangiarmelo.
Per restare sulle cose alimentari, il menu di un ristorante è ancora un modello: nel caso vedrò quasi sempre una lista di nomi, ognuno dei quali corrisponderà ad un piatto. In questo caso il modello è simbolico, passa attraverso la conoscenza condivisa (o che si spera tale 🤭) del significato di uno o più termini. Ma sempre modello è: mangiarsi il pezzo di menu che presenta una teoricamente buonissima fettina in salsapariglia non ha mai, che si sappia, portato molto bene.
Un altro modello ben conosciuto è il “cartamodello” che si usa nelle sartorie. Certo, in linea di principio potresti ritagliartelo, incollarlo addosso e pretendere che sia un abito. Credo che i passanti che incontrerai non saranno dello stesso avviso (cosa particolarmente possibile nelle giornate di pioggia): il cartamodello è il disegno che specifica tutti i tagli di tessuto che, una volta cuciti, comporranno un vestito.
Un altro modello ancora è il modello in scala di un aeroplano che, messo in galleria del vento, permetterà ad esempio di capire se la forma è sensata, se le superfici alari danno un minimo di portanza, eccetera eccetera. Senza con questo che un pilota collaudatore debba salire sull’aereo mai provato ma già finito, e lo porti in aria.
Con un po’ di fantasia anche tu potrai indicarmi moltissimi altri modelli. E dico di più: ormai sono ubiquitari. Li adoperiamo per tutto, anche più del prezzemolo (all’inizio dell’epidemia della SARS Cov-II avevo partecipato ad un programma open-source di elaborazione diffusa, in cui i modelli molecolari numerici di un mare di molecole (capsidi del virus, parti della sua “pelle”, frattaglie interne varie, eccetera) venivano posti in vibrazione simulata, al fine di trovare dei siti di legame possibili per alcuni farmaci; se gli ingegneri farmaceutici avessero seguito il metodo solito, basato su prove di laboratorio, per arrivare ai primi vaccini ci avremmo messo dieci anni, invece che uno solo, e l’effetto della catastrofe già accaduta sarebbe stato infinitamente peggiore).
Un modello deve essere necessariamente una rappresentazione semplificata della realtà?
Mica detto!
Prendiamo, ad esempio, gli abitanti del pianeta Urcurù: da loro piove moltissimo, praticamente sempre. L’unica differenza, ma non priva d’importanza, è se la pioggia avviene tranquillamente oppure a scrosci, cosa per gli abitanti fastidiosissima per via del loro naso, fatto a trombetta puntata all’insù. Questi signori e signore non sono dei grandissimi osservatori, ma hanno deciso che gli scrosci si possono spiegare un base all’umore (pare piuttosto irascibile) del dio Tarlarà, ed hanno, nel ventiseimila anni terrestri della loro longeva civiltà, trovato una serie di regole che permettono di capire se Tarlarà è arrabbiato, o no. Inutile dire che, con tanto di ventiseimila anni a disposizione, la loro lista di regole è diventata lunghissima. Tanto lunga, che per scriverla tutta hanno dovuto fare un quaderno spessissimo, così spesso da fare tutto il giro del pianeta: cosa che, ne converrete, non è molto pratica.
In breve: un modello potrebbe anche benissimo essere più complicato della realtà che cerca di descrivere: la logica non lo proibisce a priori!
Il senso pratico, però, sì.
Accade così che i modelli siano rappresentazioni, certo, ma semplificate della fetta di realtà che chi li ha fatti riteneva interessante.
E così, il simulacro di aereo che in questo momento stanno verificando nella galleria del vento di Panavia mica contiene il seggiolino del pilota, il motore in scala, i vetri, la pilota, le gomme delle ruote dei carrelli ripiegati, eccetera. Se va bene, si limita alla fusoliera. Magari, addirittura, ad una sua versione “lisciata”, di massima. Il modello, insomma, tralascia tutti i dettagli che i suoi costruttori hanno considerato irrilevanti ai loro casi.
Il concetto di “semplificazione”, in effetti, è legato ad un altro: “utilità”. S’intende, per qualcuno, con esigenze e idee ben precise. E può così accadere spesso che ad un oggetto reale debbano essere fatti corrispondere più modelli, ciascuno progettato per mettere in evidenzia alcuni aspetti, e tralasciarne altri.
Nessuno dei modelli di cui ti ho detto sinora si basa su equazioni. Ma nulla vieta lo faccia, ed in tal caso lo chiamiamo “modello matematico”.
Si, ma quali equazioni? Eh, bé, dipende. Magari, delle relazioni statistiche. Oppure, le equazioni differenziali che regolano l’evoluzione nel tempo di un sistema fisico.
Insomma, dire “modello matematico” non è ancora granché informativo. E non è neanche detto che sia rappresentativo di una realtà fisica riscontrabile e misurabile: per esempio, il librone che gli abitanti di Urcurù usano per prevedere il grado di arrabbiatura del dio Tarlarà è, a tutti gli effetti, matematico: una lista lunghissima di condizioni, di ciascun delle quali si può dire con certezza se, in quel momento preciso, è o no vera. Abbiamo già veduto che, come modello, comunque non è molto astuto. Tanto per sgombrare il prato da un’altra erbaccia: che un modello sia “matematico” non vuol dire che sia per forza anche sensato.
Modelli matematici basati su equazioni con un preciso significato fisico si chiamano modelli fisico-matematici. La maggior parte dei modelli di dispersione appartiene a questa categoria, e ci concentreremo su di loro.
Dicevo prima, che i modelli (e questo vale anche per quelli di dispersione) sono oggetti progettati, in vista di uno scopo. Sì, ma in dettaglio questo qual’è nel nostro caso?
Per farcene un’idea dobbiamo fare un passaggio in più.
Che cos’è la “dispersione” in atmosfera?
Dispersione… 🤔
È (non ho molti dubbi al riguardo) una parola della lingua italiana.
Nel linguaggio comune, “disperdere” ha una connotazione un po’ negativa, il contrario di “concentrare”, con un retrogusto di “buttar via”.
Ma come sempre accade, nel linguaggio tecnico le parole hanno un significato piuttosto preciso, ed è a quello che dobbiamo fare riferimento.
Herr Professor Krantz (🧐) la definirebbe più o meno così:
“Ja, natürlich. La dispersione di un tracciante in atmosfera è la crasi dei fenomeni di trasporto a distanza, dovuto al vento medio; diffusione, dovuta alla turbolenza; deposizione, a sua volta classificabile in secca (dovuta alla sedimentazione) e umida (dovuta alla pioggia); reazione chimica, dovuta all’interazione con altre specie molecolari.”
Se si accetta questa ripartizione, e si immagina (a priori non è così garantito) che questa “crasi” sia proprio una sovrapposizione brutale, una somma di termini del tutto indipendenti, allora non è difficile pensare a come si potrebbe costruire un modello di dispersione: basta prendere, nell’ordine,
- Le equazioni che definiscono l’emissione e le sue variazioni nel tempo e nello spazio.
- Le equazioni che danno il vento medio.
- L’equazione di trasporto e diffusione.
- L’equazione di deposizione.
- Il mare di equazioni delle reazioni chimiche.
Poi le si applica, e, come diciamo in Brianza, “chiuso il cinema“!
No?
Un ginepraio molto, ma molto spinoso
Certo, se questi passaggi fossero facili, be’, probabilmente per renderli realtà basterebbe la versione da programmatrici di ChatGPT.
Ma sfortunatamente, le equazioni in questione sono peggio che complicate.
Prometto: niente formule. Però, almeno, ne parliamo. Anche perché parlare delle cose, possibilmente in modo non del tutto insensato, diminuisce almeno l’angoscia.
Dunque. Equazioni di emissione. Sin qui siamo sul facile: chi progetta un impianto ha un’idea almeno approssimata di come verrà usato, e dunque di come, dove e quando verranno immesse le schifezze del caso in atmosfera.
E quanto a questo, un’eccellente approssimazione è di immaginarsele costanti nel tempo, e uguali a quelle “di caso peggiore”. Piece of cake. (Si fa per dire, naturalmente: è un bel problemone di ingegneria impiantistica.)
I guai cominciano con le “equazioni del vento”. In fluidodinamica, sin dalla prima metà del 19° Secolo si sa che il moto di un fluido si può rappresentare in modo molto preciso con una versione adattata al caso dell’equazione di Newton, che lega forza e accelerazione. Certo, stiamo parlando di un fluido, non del solito punto materiale libero di andare dove vuole. E la “forza” è, nei fatti, un bidone strapieno di roba, dalle forze apparenti dovute al fatto che la Terra gira, eccetera eccetera.
Queste equazioni (un modello a loro volta?!) hanno un nome: Equazioni di Navier-Stokes.
E qui, già nel nome, sta il busillis. In fisica saranno anche (relativamente) semplici da scrivere, ma dal punto di vista matematico sono un incubo da mal di pancia. A dir poco.
Tanto per cominciare, sono tre equazioni alle derivate parziali. E va be’. Ne esistono migliaia di altre. Poi sono non-lineari. E qui, per quanto la cosa non sia elegantissima a vedersi, viene una gran voglia de riscià el nas (di arricciare il naso).
Non è finita. Fossero delle equazioni non lineari, ma tranquille, ancora ancora non avremmo troppo di che piangere: risolverle numericamente sarebbe una faticaccia, ma, niente di che. Un gioco di pazienza, e prove e riprove – ma tanto i conti li fa il computer, che non si lamenta mai.
Le NS, invece, non sono del tipo tranquillo: mordono.
Per vederlo, basta pensare al “sistema di Lorenz” (si veda qui): tre equazioncine differenziali, ordinarie ordinarie, apparentemente innocue… E che danno luogo ad una delle soluzioni più complicate della storia della Matematica. Da dove pensi arrivino? Ecco: dalle NS. Di cui sono la versione semplificata a colpi, praticamente, di motosega.
Infine, ciliegina sulla torta, non riguardano il moto medio che interessa a noi, ma quello istantaneo. E così, nelle eventuali soluzioni (nel senso “se anche riuscissimo a scriverle”) finiremmo col trovare “dde tutto”. Vento (va beh, ci sta.) Fluttuazioni turbolente. Fluttuazioni non turbolente. Onde acustiche.
(Santa peppola… Sulle onde acustiche non sono proprio sicurissima – le NS non somigliano granché alle equazioni di propagazione delle onde in un continuo, però… E questo la dice piuttosto lunga sulla reale efficacia predittiva delle NS: sarebbe un po’ come dire che permetterebbero di ricavare per via matematica Eine kleine Nachtmusik di W.A. Mozart, o giù di lì, cosa un po’ difficile da accettare.)
Insomma: sono difficilissime e, una volta affrontate e risolte le difficoltà, alla fin fine inutilissime.
Acci, servirebbe qualcosa per il vento medio. E qui sì, viene in soccorso la “decomposizione di Reynolds” (ne parlerò in un’altra sede) che, applicate con qualche trucco matematico e qualche ipotesi fisica permettono di ricavare le “Reynolds Averaged Navier-Stokes equations” (RANS), che sono un po’ più facili da risolvere (‘nzomma…) e soprattutto tagliano via tutte le fluttuazioni e le onde.
Arrivata? Magari. La “decomposizione di Reynolds” è, come vedremo a suo tempo, una procedura delicatissima. E dipendente, già che c’è, dalla scelta di parametri arbitrari.
Con le RANS, incidentalmente, ci si avvicina al “nocciolo modellistico” della micro-meteorologia. Belle, eleganti, niente da dire. Ma, anche, piene di termini che vengono dalle covarianze delle fluttuazioni, che operano alla stregua di incognite aggiuntive.
Insomma, se la soluzione delle Equazioni NS (e RANS) è uno degli One million Dollar problems, una ragione ci sarà.
Spoiler: lo stesso fenomeno che si vede passando dalle NS alle RANS, la comparsa di termini di covarianza tra le fluttuazioni, accade praticamente in tutte le equazioni che servono, comprese quelle di trasporto e diffusione. Insomma: nebbia più nebbia uguale nebbia al quadrato. Non è consolante!
Poi vengono (a questo punto verrebbero) le equazioni di deposizione e di reazione, ma, concedetemi, lasciamole pure perdere da qui in poi: dove andrei a parare lo avete già capito.
Insomma, il gioco si fa duro.
Motoseghe
Nel mestiere del taglio degli alberi è noto come questi ultimi, prima d’essere trascinati a valle, si possano “semplificare” tagliando loro tutti i rami. Operazione assolutamente tristissima, ma necessaria: solo così, aspettando la pioggia, si riescono a trascinare a valle le piante lungo le stradine che scendono a picco nel bosco, e che a noi di pianura sembrano, nelle giornate di bel tempo in cui di solito siamo lì, misteriose (e no, su in alto il trattore non arriva… 😢).
La stessa cosa vale per le equazioni che si usano nei modelli. Ed anche lì si va di motosega, o con il suo equivalente matematico. Si prendono le equazioni, se ne studiano i termini con “analisi di scala” (diverse a seconda dell’interesse di chi le compie), e poi si tagliano via a colpi di scure tutti i pezzi che non servono.
Così può accadere che, partendo dalle RANS, taglia qua, seziona là, si arrivi ad una versione molto più semplice, come la condizione che “la divergenza del campo di moto è nulla” (non ti spaventare: magari un giorno vedrai cosa vuol dire; adesso, basta sapere che l’equazione della divergenza è una roba piccola piccola, un niente rispetto alle RANS).
Quella versione “molto più semplice” magari si riesce a risolvere numericamente, e la sua soluzione è garantito essere un’approssimazione della soluzione completa delle RANS. Approssimazione, ma, per certi aspetti, meglio dell’originale: più semplice, non contiene i termini che l’analisi di scala aveva giudicato poco interessanti.
Lo stesso vale per le equazioni di trasporto e diffusione: si accende la motosega, ci si fionda verso i “rami” e…
Si fa presto a dire “soluzione numerica”!
Oh, no, nulla di spaventoso. Solo, come spesso accade, un problema può essere risolto in molti modi, ciascuno con i propri pregi e difetti.
Volessi azzardare (fui, ci mancherebbe, una figura superautorevole come la Patti Favaron 😹) una classificazione dei modelli di dispersione fisico-matematici in base alla tecnica di soluzione delle loro equazioni, molto probabilmente disegnerei qualcosa come la figura che segue.
C’è una prima grossa cesura: da una parte i modelli che si fondano sulla soluzione analitica o numerica delle equazioni di trasporto-diffusione, semplificate nel modo più opportuno.
Dall’altra, tutti i modelli di “simulazione”.
I modelli “analitici” in pratica risolvono le equazioni in una griglia (le soluzioni numeriche o analitiche sono valutate su una griglia finita, per ragioni pratiche legate ai limiti di memoria dei calcolatori) fissa con il riferimento geografico, e cioè, “euleriano”.
I modelli di “simulazione”, invece, partizionano l’emissione continua in pacchetti discreti, e poi muovono questi ultimi alla deriva nel vento; a seconda del modello, poi, questo movimento può essere del tutto deterministico (come nei modelli puff), oppure dovuto in parte al caso (modelli “stocastici” – la stessa cosa che i “modelli lagrangiani”).
Ti dico subito che oggi i modelli più ‘a la page sono quelli stocastici, e nell’immediato futuro è su di loro che concentreremo l’attenzione.
Nel passato prossimo (e per molte e molti ancora nel presente) anche i modelli a puff sono piuttosto usati.
I modelli “euleriani” sono ancora utilizzati per cose come i piani di risanamento delle varie regioni, tanto per dare un esempio. E prevedono, di solito, anche la presa in carico delle reazioni chimiche.
I modelli “stazionari”, infine, sono cosa che definirei (se ne avessi l’autorità 😈) un relitto del passato, di interesse per lo più storico (il che non toglie che siano interessanti).
Cosa esce da un modello di dispersione?
Dicevo che, alla fin fine, i modelli di dispersione sono programmi per calcolatore. Come tali hanno un ingresso ed un’uscita.
L’uscita è una successione di campi di concentrazione, ovvero enormi tabelle di numeri che per ogni cella del dominio spaziale di riferimento restituiscono il valore al suolo della concentrazione degli inquinanti di interesse.
Quindi, la stessa cosa?
Magari…
In realtà c’è una separazione netta fra modelli stazionari, da un lato, e lagrangiani dall’altro.
I primi producono concentrazioni-limite, cioè le concentrazioni che si otterrebbero ipotizzando che la ricaduta al suolo sia avvenuta esattamente nelle medesime modalità dall’eternità “negativa” ad “adesso”.
I secondi, invece, rilasciano un’approssimazione del valore medio, per ogni passo temporale.
Concentrazioni limite e medie orarie non sono esattamente la stessa cosa. Anzi: non sono nemmeno confrontabili: se ci farai caso, la concentrazione limite ha un integrale uguale a più infinito. E ti credo! Come dicevo sono state prodotte ipotizzando un’emissione durata per un’infinità di tempo. Questa, per quanto riguarda me, la ragione dell’abbandono dei modelli stazionari.
Invece, un valor medio è molto più comprensibile e spiegabile (le “girate modellistiche” di solito vengono discusse nell’ambito di una Conferenza di Servizi, cui partecipa del pubblico motivato che, spesso, a parte l’alta motivazione non ha molto da dire – e, purtroppo, comprendere al volo). Un valore limite, invece, ha un significato concreto molto più, secondo me, sfuggente.
Che si fa con le successioni di campi di concentrazione al suolo?
Be’, le si aggrega in qualche modo.
Le simulazioni modellistiche richiedono di solito un anno intero di dati meteorologici e di emissione. Il che, se il passo temporale del modello è di 1 ora, vorrebbe dire come minimo 8760 campi numerici. Ciascuno, magari, valutato su una griglia di 40000 ricettori. In altre parole, tonnellate di valori numerici.
In realtà, però, i limiti di legge sono espressi in termini di statistiche annuali – per esempio la media delle medie orarie. O il massimo numero di superi di soglia tollerato. O… Cioè, di statistiche delle concentrazioni.
Dunque non 8760 campi bi-dimensionali, ma uno solo, che poi di solito viene presentato in forma di mappa di isoconcentrazione.
Per arrivarci, occorre qualcosa che legga i risultati ottenuti dal modello e ne calcoli le statistiche. Un programma di questo tipo si chiama post-processore del modello – ed ogni modello, non esistendo ad oggi una standardizzazione dei formati in uscita, ne ha uno o più di dedicati.
Modelli open-source, e non
Adesso facciamo un esperimento mentale.
Scegliamo un modello di dispersione (e nel farlo accettiamo implicitamente tutte le ipotesi compiute da chi lo aveva concepito), e lo facciamo funzionare con i dati che abbiamo.
Poi, in conferenza di servizi qualcuno ti chiede “Professoressa, scusi, ma come fa a dire che il modello va bene?”
Eh, già: come fai a dirlo?
Certo, se il modello lo hai usato perché qualcuno ti ha costretta a usare proprio quello lì, bene. Lo dici, e punto.
Ma se lo hai scelto proprio tu, dovrai dare delle spiegazioni plausibili.
E qui, dipende tutto.
Tutti i modelli di dispersione che conosco sono accompagnati da una documentazione più o meno ricca che spiega, più o meno approfonditamente, come funzionano.
Ma chi garantisce che quella documentazione si riferisce alla versione di modello che hai usato tu? Ed anche in caso affermativo, ci metteresti la mano sul fuoco sul fatto che davvero descrive il modello così com’è?
La questione non è peregrina, dal momento che le conferenze di servizi sono arene di avvocati, e non di fisici o scienziati ambientali.
I modelli di dispersione sono, dicevo, programmi di calcolatore. E come tutti i programmi di calcolatore sono scritti nella forma di “file sorgenti” che, una colta che il calcolatore li abbia tradotti nel suo linguaggio-macchina ed eseguiti, ne specificano interamente il comportamento.
I sorgenti, detto altrimenti, sono una specie di “documentazione di ultima istanza”. La più esatta possibile.
Magari non sono facili da decrittare, magari chi li ha scritti non ha curato molto la leggibilità. Ma con uno sforzo più o meno grande ce la fai sempre, a comprenderne il funzionamento. O, almeno, puoi farlo.
Il problema è, se quei sorgenti sono “liberamente accessibili”, oppure no.
Il modello potrebbe, infatti, essere un prodotto commerciale, qualcosa che qualcuno vende per campare. Nel caso, è molto difficile che i sorgenti vengano rilasciati: sono un segreto industriale ben custodito.
In tal caso, dovresti fidarti del costruttore del modello – cosa sempre incresciosa e, a mio avviso, da evitarsi, le ipotesi tecniche e fisiche compiute dal costruttore non essendo, magari, del tutto dichiarate, o rispondenti alla realtà del modello.
Oppure, il modello potrebbe essere disponibile per ispezione, ma corredato da una licenza che ti impedisce di correggerlo, dovessi tu trovarci qualche errore. Il famosissimo modello Calpuff ricade in questa categoria.
Oppure infine, il modello potrebbe essere open source, ovvero, scaricabile liberamente e liberamente ispezionatile e modificabile – con le cautele e i distinguo specificati nei contratti di licenza.
Premesso che modificare un modello di dispersione ne altera la natura, e che io possibilmente non lo farei, la condizione secondo me minima per poterlo usare e difendere in una conferenza di servizi è che sia, almeno, accessibile in lettura. A sorgente “aperto”, quindi, o quasi.
Questa, ad ogni modo, è la mia opinione – nella mia veste ibrida di utente professionale dei modelli, e di accademica-prestata. Ce ne sono altre.
Va da sé, che delle nostre opinioni i membri delle conferenze di servizio non fanno granché… 🤭
Direi, chiudiamo qui questa introduzione al tema.
Nelle prossime puntate vedremo aspetti più specifici, e non meno, credo, interessanti.